il retroscena
Crisi alla Regione, ecco perché tra Schifani e Galvagno sarà tregua
Oggi vertice di maggioranza. Governatore e presidente dell’Ars pronti a una schiarita che conviene a tutti. Ma soprattutto a loro due. Anche per scacciare il “fantasma” del precedente Musumeci-Miccichè

Renato Schifani e Gaetano Galvagno, "presidenti contro" come Nello Musumeci e Gianfranco Miccichè
C’eravamo tanto odiati. Ma facendo di tutto per non mostrare il reciproco sentimento. Senza mai dirselo, anzi ostentando il contrario. Gli archivi sono pieni di foto sorridenti e di dichiarazioni sdolcinate, in cui si sprecano parole come «stima», «affetto», «amicizia». E, soprattutto, un profluvio di «lealtà».
Poi, in una tempestosa serata d’ottobre, Renato Schifani e Gaetano Galvagno scoprono - più o meno all’improvviso - che nulla è come appare. Così, il governatore, che aveva negato anche l’evidenza delle intercettazioni dell’inchiesta di Palermo, dalle quali emerge un disegno sulla sua successione ordito dagli amici del golden boy meloniano, capisce che il presidente dell’Ars è ancora forte e vigoroso. «A casa mia comando io», è la brusca sintesi della vittoria di chi è stato capace di approvare un pezzo di manovra quater da una maggioranza alternativa, con Pd e M5S. Galvagno, del resto, ha sempre più la sensazione che Schifani, al di là dei proclami innocentisti, abbia provato a lucrare sui suoi guai giudiziari. Ed è dunque un incastro di sospetti opposti - da un lato le trame contro la ricandidatura e dall’altro il tentativo di affossare il più giovane rivale - il contesto in cui si rompe il giocattolo della (finta) armonia. «Renato e Geatano - ragiona un big di centrodestra, a debita distanza dal caos palermitano - commettono lo stesso errore: la scelta del candidato del 2027 passerà sopra tutte le nostre teste, comprese le loro. E allora perché farsi la guerra già adesso?».
Ieri il governatore ha provato a porre le basi: «Ci incontreremo per individuare, con quella responsabilità che non ci è mai mancata, gli eventuali motivi che hanno dato luogo a incomprensioni portatrici di voti segreti di dissenso su alcune proposte dell’esecutivo», scandisce dicendosi «più che certo che dal confronto leale e paritario di tutti noi avremo modo di chiarire e trovare ancora più slancio per il sostegno dell’azione del governo», in una nota domenicale in cui ritiene «l’unità della coalizione imprescindibile per l’azione del governo».
Nessuna reazione ufficiale, ma da Fratelli d’Italia c’è chi sentenzia un sussurro: «Stavolta non se la caverà con il solito comunicato stampa. Ci vogliono fatti, impegni concreti su un cambio di passo». Il commissario regionale Luca Sbardella ha ricevuto da Roma «pieno mandato» di «andare fino in fondo» sulla crisi in Sicilia.
Ma oggi, all’inizio, starà a sentire. Del resto, il copione del vertice è già in parte scritto. Un lungo intervento di Schifani, che parlerà «anche da leader della coalizione», con toni fermi ma pacati. E, soprattutto, distensivi. Poi, riservandosi di tirare fuori l’asso nella manica (una sorta di “statistica” del voto dei gruppi nelle manovre e nei vari collegati) ascolterà le reazioni. A partire da quella di FdI, che magari riproporrà la matrice dell’ultima rottura: la conferma di Salvatore Iacolino a super dirigente della Sanità.
Il governatore sarà disposto a rivedere la scelta in cambio dell tregua? Non è dato saperlo, ma è facile immaginare che sul tavolo - con Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo in veste di pacificisti, seppur per ragioni diverse, e la Lega «molto innervosita dal teatrino degli scorsi giorni» - finirà anche un’ipotesi di rimpasto: a Schifani serve per tenere buoni i suoi di Forza Italia, ma l’idea di un turn over di assessori a inizio 2026 farebbe bene a tutti gli alleati.
E poi i buoni propositi sulla prossima manovra regionale. Dotata di quelle «consistenti maggiori risorse» evocate anche ieri da Schifani. Sul piatto circa due miliardi, ma da spendere «con un nuovo metodo». E potrebbe essere questo il vero segnale rassicurante per tutti gli alleati: un ddl con «maggiore condivisione politica», in cui il governo - con gli assessori Alessandro Dagnino e Luca Sammartino “garanti” - s’impegnerà a coinvolgere, di più e sin dall’inizio, i gruppi di maggioranza e i singoli deputati. Un «nuovo approccio», che provi a conciliare l’inconciliabile: la centralità dell’Ars, il ruolo dei partiti e l’impostazione “mancette-free”.
Su questo terreno potrebbe arrivare anche la tregua Schifani-Galvagno, utile a entrambi. Anche per scacciare i “fantasmi” del recente passato. Sull’alta tensione fra gli inquilini dei due palazzi più importanti delle istituzioni siciliane pesa un precedente: il duello fra Gianfranco Miccichè e Nello Musumeci, tormentone degli ultimi due anni della scorsa legislatura. Con molte similitudini rispetto alla difficile cohabitation di questi giorni. In quel caso l’allora viceré berlusconiano fu decisivo (come lo è stato Ignazio La Russa, pigmalione di Galvagno, per Schifani) per la candidatura del futuro governatore, sanando la frattura che nel 2012 spianò la strada a Rosario Crocetta. L’equilibrio fra Musumeci e Miccichè s’è rotto dopo un paio d’anni, ma senza le ipocrisie degli attuali "presidenti contro". Ed è cominciata una guerra, all’inizio sotterranea e poi alla luce del sole, spesso sconfinata anche in un corto circuito istituzionale fra Palazzo d’Orléans e Palazzo dei Normanni. Ma è stata, soprattutto, una questione personale fra i due. Portata alle estreme conseguenze nelle caotiche giornate dell’agosto 2022. Quando a Miccichè sarebbe bastato dire sì al bis di Musumeci per confermare, in cambio, la sua poltrona sullo scranno più alto di Sala d’Ercole. Perché l’uno avrebbe legittimato l’altro.
Sappiamo com’è andata a finire. E lo sanno pure Schifani e Galvagno.