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Il segreto della cucina siciliana? Non lo immagini. Ce lo dice Doctor Gourmeta
Carlo Spinelli, alias Doctor Gourmeta, esplora la Sicilia come “continente” gastronomico, un mosaico di biodiversità, tradizioni millenarie e sapori che il mondo considera già "gourmet" nella sfida del gusto globale
Carlo Spinelli
Chi frequenta l’enogastronomia italiana lo conosce come “Doctor Gourmeta”. Carlo Spinelli, milanese, laureato in Lettere, studioso di Storia antica e specializzato in cultura gastronomica, è il coordinatore editoriale di ItaliaSquisita. Un ruolo che lo porta a muoversi con disinvoltura tanto tra le grandi aziende del food quanto tra gli artigiani che impastano, fermentano, coltivano piccole eccellenze locali. Un ponte vivente tra mondi diversi. In Sicilia è stato l’anima della festa d’autunno di ItaliaSquisita a Taormina, una “prima volta” se si esclude un tentativo da numero zero di parecchi anni fa.
«Quando abbiamo ricevuto l’ok per realizzare qui la festa la mia prima reazione è stata: finalmente! Sono sempre stato un fan sfegatato di quest’isola, ma confesso che ci ha messo in difficoltà: gastronomicamente parlando è enorme, impossibile “stringerla” senza fare torto a nessuno. Taormina, il Ragusano, il Catanese… alla fine ci siamo concentrati sulla parte orientale, ma avremmo potuto fare dieci feste».

La festa di ItaliaSquisita a Taormina
La Sicilia è un continente gastronomico, gli unici che non ci credono siamo noi siciliani?
«All’inizio sono stato molto arrabbiato con la ristorazione siciliana perché non si rendeva conto del proprio valore. Era come se tutto ciò che succedeva in Sicilia fosse considerato “normale”: mille parmigiane diverse, la diatriba arancino/arancina che in realtà racconta secoli di contaminazioni, i dolci dei conventi che spuntano come scoperte archeologiche. Poi quando con ItaliaSquisita abbiamo iniziato a girare dei video a caccia di eccellenze agroalimentari e gastronomiche, ci siamo accorti di un fatto incredibile: il forestiero considera già gourmet la cucina siciliana tradizionale. Il cannolo, che per un siciliano è una pausa al bar con un caffè, per un giapponese è quasi un’esperienza mistica. Allora ho capito che il concetto di “cucina gourmet”, preso in prestito dai francesi, in Sicilia esiste da sempre. Autenticità, prodotto, tecnica ancestrale: è già tutto lì. Oggi, anche grazie al web la cucina siciliana è più globale che mai e non parlo della cucina regionale: parlo di quella locale, iper-specifica. In Minnesota, in Brasile, in Giappone, la gente guarda video su scacce ragusane o pesce alla ghiotta e comincia a sognare un viaggio. Questo crea un pubblico cosmopolita che, paradossalmente, aiuta i siciliani a ripensare le proprie origini e le proprie potenzialità. È uno specchio che rimanda a un’immagine nuova, ma dietro quello specchio c’è una storia antica».

Quando parla di “gourmet”, quindi, intende autenticità?
«Certo. Per me gourmet significa cucina di prodotto, riflessione, rispetto della tradizione ma con la libertà di aggiornare tecniche e cotture. La cucina italiana – e quella siciliana più di tutte – cresce su due binari paralleli: da un lato gli stellati, dall’altro le nonne. E funzionano entrambi».
Educazione alimentare e accessibilità economica. Come si conquista il pubblico giovane?
«Con la comunicazione giusta. Oggi i grandi chef non sono più figure nascoste: checché se ne dica, Cracco e Cannavacciuolo hanno insegnato a dare un nome agli ingredienti. Ma i libri e le riviste parlano agli over 35. YouTube e i social parlano oggi ai ventenni: ed è lì che ti giochi tutto. Noi vediamo ragazzi che scoprono un ristorante da un video e poi prendono il treno per andarci. Prima era zero, oggi è venti su cento: è una rivoluzione».

Siamo ancora nella bolla modaiola dell’enogastronomia o c’è una reale consapevolezza?
«È un percorso collettivo. Finché i genitori compreranno il solito formaggio industriale “di plastica” al supermercato un figlio capirà che esiste altro. Ma se sveglio i miei figli la domenica mattina per portarli al mercato, faccio scegliere loro le verdure, gliele faccio assaggiare, saranno loro a capire la differenza».
Quanto incide l’onda salutista nell’alimentazione?
«Tantissimo. Se dici che la produzione intensiva fa male al pianeta, non frega niente a nessuno, se dici che quella fragola venduta d’inverno contiene più pesticidi, allora qualcuno si sveglia. In Italia ogni mese abbiamo 20-30 verdure diverse: è una biodiversità stagionale pazzesca che fa bene e che, finalmente, le persone stanno riscoprendo».
In Italia si parla di settore agroalimentare sotto attacco: vino, pasta, etichette semaforo, guerre di dazi, guerre con l’Ue, come la vede?
«Ognuno tira l’acqua al proprio mulino, è normale, io penso che le uniche entità super partes dovrebbero essere le istituzioni. Non puoi difendere tutto in blocco “perché è italiano”. Ci sono le multinazionali dell’agroalimentare, ma ci sono anche i piccoli allevatori, i produttori di prossimità, chi fa qualità vera. Questo è il futuro».
I cambiamenti climatici stanno trasformando la Sicilia in una serra tropicale con avocado, mango, banane, la vede come un’opportunità o una perdita di biodiversità locale?
«Un’opportunità enorme, anche se figlia di un problema. Gli antichi romani non puntavano sulle grandi produzioni: l’Italia è cresciuta su razze e varietà autoctone, sulla specificità dei territori. Se oggi in Sicilia si producono avocado più piccoli ma sempre più buoni, ben venga. Fra dieci anni potremmo avere banane locali di tre varietà diverse. E avete già un tesoro: grani antichi, pomodori siccagni… Il giorno in cui chiederemo a Israele tecnologie per la desalinizzazione, la Sicilia potrà fare un salto enorme».
E chi dovrà guidare questa nuova stagione gastronomica?
«Gli artigiani. Pasticceri, panificatori, coltivatori, pescatori, trasformatori, i giovani chef che tornano dopo esperienze in Europa e riscoprono il “brand trattoria” portano una contemporaneità meravigliosa: pochi ingredienti, gusto puro, sostanza».
Una cosa che la sorprende sempre quando si siede a tavola in Sicilia?
«Le granite, una semplicità di lusso rimasta immutata nei secoli. È straordinario vedere americani, giapponesi, olandesi entrare in un bar e ordinare una granita come fosse un’esperienza spirituale. Poi la pluralità delle parmigiane: ognuna unica, nessuna definitiva. E infine la capacità della Sicilia di stupire sempre: ti sembra di conoscere tutto, poi scopri un dolce nuovo di un monastero e rimetti tutto in discussione».
i ricci di Palma di Montechiaro dolci di origine conventuale
Oggi tutti parlano di cibo, pochi lo capiscono. Da dove si ricomincia?
«Dalla cucina di casa. Scegliere prodotti buoni, consultare libri seri, seguire i luoghi giusti. Torno a fare l’esempio dei miei figli. Li ho portati nella migliore hamburgeria di Milano quando avevano cinque anni, poi, al McDonald’s, hanno lasciato il panino e mangiato solo le patatine, che secondo me hanno qualche ingrediente segreto che crea dipendenza (ride ndr). Lo stesso ho fatto con il sushi: ho portato mia figlia da un maestro giapponese, le ho spiegato il valore del pesce buono e le ho detto pure quant’era costato. E poi ho aggiunto: «Quando avrai fame e pochi soldi, in Sicilia troverai sfincioni, arancini, panelle, ma sarai in grado di capire quali siano quelli buoni”. La consapevolezza nasce dall’esperienza, non dalla teoria. Ecco, per me l’educazione alimentare è tutta lì».