×

l'intervento

Gli artisti e la responabilità: Simona Malato, «L'arte e le parole per cambiare le cose»

L'attrice e l'arte come responsabilità e strumento di dialogo per spezzare il silenzio sulla violenza di genere

Gabriele Costa

25 Novembre 2025, 06:00

14:13

Gli artisti e la responabilità: Simona Malato, «L'arte e le parole per cambiare le cose»

«Violenza sulle donne: c’è tanto lavoro da fare, ma fino a quando ci sarà, l’arte avrà ragione di esistere». È molto decisa Simona Malato, attrice originaria di Erice ma palermitana di adozione, diretta - tra gli altri - da Giuseppe Tornatore, Giuseppe Fiorello ed Emma Dante. «Ho appena finito di girare un biopic Rai su Franco Battiato, diretto da Renato De Maria - racconta Malato - interpreto la madre Grazia, ed è proprio di grazia di cui abbiamo bisogno in questo momento».

In che modo gli artisti possono rompere il silenzio che ancora circonda la violenza di genere?

«Io credo molto nella forza dell’arte e della cultura. Ma occorre che gli artisti si assumano la responsabilità delle parole, dei gesti. Io lavoro molto sul territorio, nelle periferie, con i bambini, e mi rendo conto che la nostra cultura non va imposta ma deve essere uno strumento di dialogo, per creare quella che Danilo Dolci chiamava la reciprocità. La parola è trasformativa, chi ha le parole non usa le armi. Per questo l’educazione sentimentale nelle scuole è necessaria».

Hai interpretato donne che vivono in contesti di forte emarginazione e violenza, come Betta in “Misericordia” o Rita in “Una femmina”. Quanto è stato difficile dare voce e corpo a un dolore così intimo e, a volte, muto?

«Cerco di mettermi in dialogo con queste donne che entrano come dono nella mia vita. Più che fare delle domande a loro mi faccio fare domande. È una sorta di gioco fantastico dove l’immaginazione mi aiuta moltissimo. Non pretendo di essere perfetta, forse questo mi agevola quando sono lontana dalla donna che devo interpretare».

A Palermo sono accaduti recentemente nuovi tristi fenomeni di violenza, in una realtà sociale che fatica ad accettare la piena autonomia femminile.

«Dobbiamo riprenderci la città. Palermo è un giardino in questo momento ricoperto di sterco. Dobbiamo scendere in piazza e stringerci tra di noi senza barriere generazionali. Quando è successo l’ultimo omicidio in centro, nello stesso posto dove due ore prima si trovava mia figlia, io lavoravo con le donne dello Zen. Ho avuto dei racconti da alcune operatrici che sono andate il giorno dopo lì a lavorare. Nessuna aveva voglia di dire una parola. Perché loro, completamente innocenti, sapevano che appartenendo a quel quartiere avrebbero dovuto tacere. Non dobbiamo invece stare zitti, ma aiutare queste persone a non sentirsi sole».